Prefazione al volume di Monica Marghetti “Voglio urlare”
"La mia voglia di vivere è un daimon ardente
che talvolta mi rende maledettamente difficile
mantenere la coscienza di essere mortale".
Carl Gustav Jung
Il brano che introduce al testo di Monica Marghetti: “Se le mie parole riusciranno a liberare anche un solo grido addormentato da un solo cuore, sarò davvero felice” richiamando il noto passo di Emily Dickinson “Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano.” annuncia il progetto dell’Autrice: cercare di dare un senso alla propria angoscia, poterla raccontare, poterla comunicare agli altri, riuscire a descriverla. Nell’“Urlo” scritto dalla Marghetti allo stesso modo che nel “Grido” dipinto da Munch l’individuo ritratto perde le fattezze umane fino ad identificarsi col terrore stesso, un terrore senza nome, irriconoscibile. L’intera scrittura del racconto assume l’aspetto di questo urlo: la forma grafica, i contenuti narrati, lo stesso genere letterario scelto,un moderno stile epistolare via e-mail, pone di fronte al lettore la tensione di una grande pentola a pressione di stati d’animo non espressi, emozioni non mentalizzate, esperienze non pensate che contraddistinguono la rappresentazione della vita della famiglia di Monica. Una vita descritta come caratterizzata da frequenti difficoltà economiche, instabilità, scarsità di modelli positivi, esperienze di rifiuto, frequenti cambiamenti di abitazione.
Ma soprattutto la narrazione di una vita familiare dove non c’è spazio per emozioni e sentimenti, repressi e coartati: i nessi significativi della storia sono ricostruiti risalendo di tre generazioni attraverso una attesa di eventi dolorosi, affiancati per giustapposizione, che si susseguono senza soluzione di continuità e fuoriescono senza controllo dalla pentola a pressione dei ricordi in un modo quasi compulsivo.
Ecco allora emergere il grande tema della nocività di relazioni familiari caratterizzate da analfabetismo affettivo, con un primato dell’agito sulla simbolizzazione. Colpisce la lettura di queste relazioni “di pietra” i cui ricordi feriscono come pietre. Colpisce la bellezza idealizzata che accompagna freddamente e compulsivamente la descrizione di Milo, innalzato su un piedistallo di purezza cristallina sia da vivo che da morto. Colpisce la disinvoltura con cui sono descritte le frequenti percosse tra coniugi e tra genitori e figli come modalità naturale di relazione e di soluzione dei problemi, con esiti spesso drammatici. Colpiscono le relazioni che assumono non solo la forma dell’abuso, ma anche dell’uso dell’altro (coniuge, figlio genitore, fratello) come strumento per la realizzazione di propri bisogni e desideri.
E sullo sfondo, sempre presente il fantasma della etiopatogenesi della dipendenza patologica, nelle sue diverse forme: dipendenza da droghe, da alcool, dal gioco d’azzardo, da relazioni affettive dolorose, dipendenza nel disturbo dell’alimentazione.
Finché non si realizza il destino nefasto di Milo. Leggendo l’origine di questo nome, scelto dai genitori dopo aver visto il Milo del film “Incompreso”, si è subito portati nella dimensione della incomprensione e della incomunicabilità, che è la dimensione della ineffabilità e dell’isolamento della soggettività del tossicodipendente e della realtà per lui del suo interlocutore. Ma, considerando più attentamente, Milo nel film di Comencini non è l’Incompreso, ma suo fratello minore, un bambino di quattro anni di salute cagionevole, che contribuisce all’essere incompreso del fratello Andrea ed è per di più causa involontaria della sua morte. L’incompreso è il fratello di Milo che come Monica deve fare qualcosa di clamoroso, deve urlare con tutta la propria vita per essere riconosciuto.
Qui vengono in mente le parole di Kierkegaard:“Resta il tormento più grande quando un uomo non sa se la propria sofferenza sia una malattia o un peccato”. Monica è sicura nell’attribuire le responsabilità del tormento del fratello Milo: la sua sofferenza è una malattia per lui ed è un peccato di tutti gli altri. Alla luce di quanto narrato prima sembra una conseguenza chiara condannare genericamente famiglia, società e sistema e ridurre Milo a vittima incolpevole. L’impressione è che dietro l’assoluzione del comportamento di Milo, compreso i reati che lo portano in carcere, albeggi una forma di codipendenza, alimentata dallo stesso meccanismo di negazione condiviso dai due fratelli. L’assoluzione dell’altro porta inevitabilmente con sé il rischio di espropriarlo persino della più elementare dignità, che è quella di fare del male. Comunque, al di là delle rappresentazioni e delle interpretazioni che se danno, resta il fatto che la questione della tossicodipendenza è così grave e complicata da aver suscitato da sempre sentimenti di impotenza in chi se ne occupa attivamente in qualità di operatore, di medico, di psicologo, di legale, di politico, di tutore dell’ordine e di ricercatore e non può essere ulteriormente toccata adeguatamente in questa sede.
Piuttosto ci si può chiedere che cosa ha permesso alla protagonista Monica di sopravvivere fisicamente, mentalmente e spiritualmente alla propria storia. Non tanto la voglia di urlare, piuttosto quella che genericamente, ma in modo efficace, può essere chiamata “voglia di vivere”. Una grande voglia di vita si manifesta nel desiderio di possedere fin da bambina una matrioska e di ricercare in questo insieme di bambole in cui la bambola più piccola è sempre contenuta da quella più grande una manifestazione pratica di quella possibilità di soddisfazione del bisogno di contenimento che madre, famiglia scuola e società hanno sempre negato e lei ed ai suoi fratelli, una funzione che forse riesce a trovare proprio nella stesura di questo volume in cui i diversi frammenti di ricordi e di e-mail, nonché la pluralità di riferimenti diretti a se stessa (Monica, Monichina, Monì, m.) si forgia dentro una pelle calda, elastica e contenitiva, che sostituisce il freddo e rigido metallo comprimente della pentola a pressione.
La voglia di vivere è la miglior risposta che si possa dare alla disperazione. La voglia di vivere, una testarda voglia di vivere, di crescere e di lottare incarnata nel concepimento, nella gravidanza e nella nascita della figlia Alessia, presentata subito al mondo come “La Lottatrice” per eccellenza. La “santa voglia di vivere” cantata da Francesco De Gregori in Rimmel, ma anche da Luca Carboni che augura al bambino “che la voglia di vivere /non ti possa mancare /la santa voglia di vivere /ti faccia sempre sognare /ti porti molto più in alto /più in alto del tuo aquilone /la santa voglia di vivere.”
L’arma vincente per superare le difficoltà viene rinvenuta, come scrive Franco Nanetti nel noto volume “Assertività”, “in un agire per (e non contro) che in altre parole significa capacità di affermare se stessi per essere se stessi”.
I protagonisti del libro di Monica Marghetti rivendicando prepotentemente il diritto a vivere l’infanzia ci fanno riflettere, aiutandoci a riconoscere per tempo e a combattere tutti i ladri d’infanzia. A partire dal momento della nascita.
Nella nascita il primo urlo, quello del neonato che viene al mondo. Un urlo di dolore per il recente passato traumatico del parto, ma anche un urlo di vita, che innesca la possibilità di respirare e proietta per la prima volta un individuo verso il futuro. Così nasce con un urlo il libro di Monica Marghetti che ci accingiamo a leggere.
Bologna, 15 settembre 2006
Mario Rizzardi
Docente di Psicologia dello sviluppo e di Psicologia sociale
Università di Urbino